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Hipsteria

Eravamo 4 amici al bar. Bevevamo birra biologica di produttori locali e intanto fumavamo sigarette di tabacco senza additivi appena rollate a mano. Avevamo tutti e quattro la T-shirt dei Joy Division. Non una T-shirt dei Joy Division a caso, quella di Unknown Pleasures, ovviamente. Quella degli Smiths o di Morrisey da solo ce l’avevamo a casa nel terzo cassetto. Sopra la maglietta, un cardigan uguale uguale a quello che ci aveva fatto nonna da piccoli, ma comprato l’altro ieri in un negozio vintage. Oppure una camicia a quadretti. Tutti e quattro portavamo i baffi, chi arricciati in punta come Dalì, chi disordinati come se fossero cresciuti per caso (certamente tutti li portavamo radi; avevamo l’età in cui i uomini e donne hanno la stessa quantità di baffi). Indossavamo tutti e quattro pantaloni troppo stretti ed espadrillas senza marchio di fabbrica.Tutti quanti portavamo gli occhiali. Grandi, grandissimi, facevamo la gara a chi aveva l’occhiale più grande, come qualche anno prima, alle medie,  facevamo con il pisello. Portava gli occhiali anche chi ci vedeva benissimo. Piuttosto ci si metteva le lenti neutre, o li si portava finti. Molti avevano il cappello. Chi di paglia, chi un basco, qualcuno il borsalino per darsi un tono. Le ragazze avevano lacci che stringevano le tempie o chignon che sembravano stare lì sulla testa da almeno un paio di notti. Si andava spettinati. Andare dal barbiere sotto casa o da Jean Louis David in centro era troppo mainstream. Le ragazze avevano pantaloni a fiori senza forma, borse troppo grandi o troppo piccole per qualsiasi tipo di utilizzo. Qualsiasi capo d’abbigliamento mettessero era o troppo largo o troppo stretto. A parte qualche piccolo tratto distintivo, c’erano poche differenze tra uomini e donne. Non volevamo appartenere a niente. Nessuna politica, nessuna religione, nessun genere predefinito, l’orientamento sessuale incerto o variabile, come il tempo a giugno. Solo nell’arte volevamo distinguerci. La musica che ascoltavamo noi non doveva per nessun motivo essere passata in radio, altrimenti diventava alla portata di tutti. Di qualsiasi gruppo musicale si parlasse, se conosciuto ai più, dovevamo dire “è troppo sottovalutato” o “è decisamente sopravvalutato”. Qualsiasi gruppo ci nominassero, dovevamo dire “io lo seguo dagli esordi”, altrimenti non valeva. Non importava davvero che avesse un senso quel che stavamo dicendo, bastava sfoggiare una cultura musicale inesistente e far colpo sull’interlocutore. La letteratura che piaceva a noi doveva essere disprezzata dalla maggior parte dei lettori, altrimenti non avremmo saputo nulla di nuovo. I libri dovevano contenere frasi incomprensibili formate buttando parole e concetti a caso, e noi dovevamo dire che in quella frase lì ci vedevamo l’essenza della vita. Le foto che facevamo noi, sempre con un filtro diverso, dovevano comunicare angoscia e disorientamento a chi le vedeva. Le foto più felici e colorate potevano al limite comunicare malinconia. Per quanto riguarda il cinema, solo mattoni polacchi o documentari iraniani erano degni della nostra attenzione. Volevamo essere diversi, invece eravamo tutti uguali. Ci impegnavamo al massimo per sembrare hipster, ma il vero hipster non deve sapere di esserlo, quindi facevamo finta che non ce ne fregasse nulla. Avevamo le facce disilluse e l’aria vagamente bohémien, anche se eravamo quasi tutti figli di papà. Qualche anno prima giravamo su scooter modificati, ma poi avevamo addirittura rifiutato l’automobile pur di avere una bicicletta sgangherata con cui andare in giro. Gli oggetti “di lusso” che ci potevamo, anzi, dovevamo, permettere, erano lo smartphone e le vacanze a Londra o a Berlino. Beh, anche i nostri vestiti costavano un sacco di soldi, ma dovevamo far finta che ce li avessero tirati dietro al mercato del sabato. Eravamo giovani, eravamo stupidi, o forse dei geni: avevamo mischiato i pezzi peggiori della moda dei vent’anni precedenti e ne avevamo fatto uno stile, una cultura. Se qualcuno solo un paio d’anni prima si fosse vestito come noi e avesse avuto le nostre passioni, lo avremmo sfottuto in eterno. Era il duemiladodici e avevamo diciotto anni.

Il favoloso mondo di Tiziano.

Ieri la mia amica Alice mi ha fatto ascoltare questa canzone.

Ho un messaggio per te, Tiziano.

Io ti voglio bene, credimi. Dopo che Alice e Manu mi hanno illuminata sulle tue disgrazie, dopo anni di letture di Vanity Fair, ho capito che sei uno di noi. Hai lottato con i chili di troppo, con la depressione, con l’istinto suicida, con l’amore non corrisposto, con la rivelazione di un orientamento sessuale che la società non è pronta ad accettare. Bravo Titti Iron (ti chiamiamo così), sei grande.

Ho un’altra cosa da dirti: ai tuoi esordi mi piacevi un sacco. Avevi un sound fresco e dei testi accattivanti, sebbene un po’ sconnessi, di tanto in tanto (tipo Rosso Relativo, cosa volevi dirci?). Poi, nel 2008, è iniziato il declino. Che ti è successo, Titti? Quando per la prima volta ho sentito Indietro mi è venuto un colpo al cuore. “Notizia è l’anagramma del mio nome”? Prego? Vabè, dai, volevi fare un giochino di parole. In fondo mi sei ancora simpatico. “Ricevo il tuo contrordine speciale, nemico della logica morale, opposto della fisica normale. Geometria degli angoli nascosti, nostri“. Questa però me la devi spiegare. Sarò malata io, ma ci vedo una roba volgarissima dentro. Secondo me facevi prima ad essere esplicito, poi al limite attaccavi sul CD l’adesivo “contenuto non ad adatto ad un pubblico bigotto”. Ma poi, ho un’altra richiesta per te, perchè nella versione inglese, Breath Gentle, sembra che tu dica “Vincenzo”? L’hai fatto apposta? Ti piaceva Iaquinta?

Scusa l’ammorbamento, ma erano domande che mi portavo dietro da un po’. Torniamo al punto. Dopo Hai delle isole negli occhi sinceramente mi sei caduto davvero un po’ in basso. La musica è inascoltabile, cioè proprio la roba più dozzinale che potessi inventarti. Ma poi scusa, lo spelling inglese di AMO e AMI, come ti è venuto? Non farmi la fine di Vasco Rossi, che quando non sa cosa dire ci mette degli “EH” “OH” “UH” a caso. Manca solo la “IPSILòN” e poi possiamo fare un trenino.

Finchè ieri ho sentito “Per dirti ciao”. Uno stupro auricolare vero e proprio. Titti, piuttosto fermati un po’, vai in villeggiatura e attendi l’illuminazione, ma non fare canzoni a caso, che ti rovini la reputazione. E’ un consiglio, sul serio. “Astanterie”? Ma che te sei fumato er dizionario, a Tizià?

Ascolta me, avanti, posa quel microfono, non è un giocattolo.

Cose che mi piacciono

Dopo il mio elogio al venerdì, ho cercato di pensare ad altre cose che mi piacciono:
Mi piace quando parlo di qualcuno e subito dopo lo incontro e così posso dire, senza bugie e conseguenti sensi di colpa, “stavo proprio parlando di te!” con aria stupita e felice. 
Mi piace mettere la musica alta e iniziare a cucinare, soprattutto affettare le verdure.
Mi piace svegliarmi con il caffè già preparato da qualcuno che si è alzato prima.  
Mi piace comprare un biglietto per un concerto e dimenticarmene. E poi ricordarmene il giorno prima dell’evento e sentire la frenesia di andarci. 
Mi piace stare zitta e guardare con aria interrogativa una persona quando a questa non viene in mente una parola; anche se la so cerco di resistere e dirla solo all’ultimo, quando vedo che uno è sfinito.
Mi piacciono i prati con l’erba tagliata perfettamente e mi piace chiedermi come mai l’erba del mio giardino è asimmetrica. Ma fa lo stesso, in ogni caso mi tolgo le scarpe e la schiaccio con i piedi. 
Mi piace pensare di essere magra quando ho addosso qualche vestito con cui mi sento bene. 
Mi piace fare degli abbinamenti di cibo schifosi. Il mio preferito è pucciare la carota cruda nello yogurt all’albicocca, usandola come cucchiaino. 
Mi piace quando i bimbi mi abbracciano senza un motivo. A me viene voglia di morderli e penso che non potrò mai avere un bambino mio, potrei fagocitarlo durante un attacco di tenerezza. 
Mi piace il male che fa l’ago quando perfora la pelle mentre faccio un prelievo del sangue o un piercing. A volte mi piace prendere un ago e far uscire una gocciolina di sangue dalle dita. Mi piace il modo in cui la gocciolina esce, che sembra che si gonfi come un palloncino. 
Mi piacciono le mostre d’arte, ma mi annoio dopo un po’. Vorrei poterle visitare velocemente e freneticamente, ma se ho pagato tipo 10 euro di biglietto devo stare almeno un po’ dentro, sennò non ne vale la pena. 
Mi piace, quando sono arrabbiata, disegnare delle spirali con i pastelli o i pennarelli. A dire il vero anche quando non sono arrabbiata. 
Mi piace iniziare un libro nuovo in una giornata di sole. O di pioggia, fa lo stesso. Mi piace iniziare i libri nuovi, ma prima leggo sempre l’ultima frase per vedere se il finale me lo aspettavo o meno. 
Mi piace cucinare i dolci all’ultimo momento, trovando subito tutti gli ingredienti in casa. Quando arriva qualcuno all’improvviso e in dieci minuti preparo una torta mi sento realizzata. 
Mi piace infilare le mani nel sacchetto del riso quando lo apro, il rumorino che fa, l’amido che resta sulle mani e le fa diventare morbide e mia madre che mi urla “che schifo, basta toccare ‘sto riso!”.
Mi piace quando vai in un negozio, non hai abbastanza soldi e a un certo punto il commesso dice “Va bene così!”. 
Mi piace quando nevica e io sono incavolatissima e Achille invece scodinzola esagitato chiedendosi che cos’è quella roba bianca, bagnata e fredda. 
Mi piace andare al mare e fare una vita da vecchia. Svegliarmi presto, mangiare un sacco di roba a colazione, andare a camminare, stare tutto il giorno in spiaggia e andare a dormire prestissimo, che il letto sembra muoversi dopo aver sentito per tutto il giorno in mare e la pelle ti brucia a contatto con le lenzuola. 
Mi piace ascoltare Alton Ellis o Solomon Burke, quasi sempre alla domenica mattina. 
Mi piace passare un sacco di tempo a pensare a cosa vorrei fare o come vorrei arredare la mia casa o a  dove vorrei andare in vacanza e soprattutto a come fare soldi per realizzare quanto ho pensato.
Mi piace bere un bicchiere di vino insieme a qualcuno mentre si aspetta che la cena finisca di cuocere. Mi fa sentire una persona sofisticata senza un vero motivo. Nel mio immaginario gli intellettuali benestanti bevono ogni sera prima di cena. 

Dal letame nascono i fior…

Domani, oltre a San Valentino (di cui ho già ampiamente sproloquiato stamani), cade anche un’altra lieta ricorrenza: inizia il Festival di Sanremo. In effetti, essendo una ricorrenza lieta almeno quanto San Valentino, la annovererei nella categoria “eventi che chissenefotte”. Ma non potevo esimermi dallo spendere due parole a proposito della più importante kermesse canora del nostro amato Paese. 

Prima di sparare a zero, voglio farvi una premessa: io venero Celentano. Lo adoro. Ogni volta che ascolto “Impazzivo per te”, impazzisco per lui. Sono cresciuta a pane e sue canzoni. Canzoni, appunto. Tanto lo amo quando canta, quanto lo odio quando parla, o peggio, non parla. 359mila Euro: questo il suo cachet per presenziare al Festival. E dubito seriamente che canterà. Ma la questione è: questi soldini, come bene sapete, provengono dal pagamento del canone Rai, tassa inutile e tuttavia obbligatoria per noi italiani, già strozzati da mille altre imposte. Ebbene, cara Rai, mentre noi tutti arriviamo con fatica a fine mese e il Governo ci esorta a sacrifici via via maggiori, posso indignarmi un attimino se voi sborsate così tanto per Celentano? Che non parla! Ma cazzo! La colpa è della Rai che lo vuole ad ogni costo, e di noi cittadini che dovremmo boicottare Sanremo in massa, mica del povero (si fa per dire) Adriano. Ecccerto, lui chiede soldi a badilate, ma poi, bontà sua, li devolve in beneficenza alle famiglie povere. Le stesse che non arrivano a fine mese e pagano il canone. Guardate, io sono ignorante e non ci capisco un cazzo, però, non vi pare un filino una stronzata?
Come vedete le polemiche su conduttori/vallette/cachet milionari/ospiti e superospiti precedono SEMPRE i discorsi su quella che dovrebbe essere la vera protagonista dell’evento: la buona musica italiana. A mio parere, boicottare la trasmissione per lo spreco di soldi non è un’idea propriamente geniale, perchè si finisce col penalizzare anche quel poco di buono che in Italia è rimasto, ossia un certo tipo di cantautorato che è tutto nostro. Quest’anno tra gli artisti in gara ci sono i Marlene Kuntz e Nina Zilli e tra i giovani Erica Mou. E poi i Bidiel. Che cazzo vorrà dire ‘sto nome? Mah. Comunque li ho sentiti oggi, e non sono affatto male. E poi ho un debole per i siciliani, quindi tiferò per loro che sono di Catania. Beh, insomma, poi ci sono i soliti noti tra cui Gigi d’Alessio e un tot di cantanti sbarbatelli usciti dai talent show. Ma noi quando ci sono quelli possiamo fare zapping e far scendere un attimino lo share, no?  
Vabè, se vi piace guardatelo e se non vi piace criticatelo, fate un po’ cosa volete…tanto si sa che a Sanremo “facimm’ ‘e cose aum aum”, come in tutto il resto d’Italia, d’altronde. 
In ultimo, permettetemi un attimino di serietà. Non avete mai pensato di voler essere nati a fine anni ’40, inizio ’50, in modo da potervi gustare, nel pieno della vostra gioventù, i bei Festival di una volta? Io sì. Sì può avere nostalgia di una cosa mai vissuta? Forse no, ma ogni volta che ascolto Tenco piango lo stesso.