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Autobiografia

Era l’ora del tè di un giorno di primavera. La gente aveva appena finito di scherzare per i Pesci d’Aprile ed era tornata seria perché stavo per nascere. Mi sono presentata al mondo di faccia; posizione insolita per un feto. Devo aver pensato che se proprio dovevo vivere, allora tanto valeva non nascondersi. Non sono stata “sfagiolata”, ma “asportata” dal corpo di mia madre come una brutta malattia. Questa cosa un po’ mi rode: forse è per questo che sono nata senza fiato e poi non ho quasi mai pianto.
Ho iniziato a disegnare molto prima di imparare di parlare. Papà era preoccupato per il mio mutismo; a mamma tutto sommato invece andava bene così, perché aveva comunque un’ottima arma di ricatto contro i capricci: mi minacciava di rubarmi i pastelli e io diventavo molto obbediente.
Sapevo camminare già da tempo, dal mio primo Natale, ma prendevo sempre la strada sbagliata: a volte scappavo con la gente che incontravo per strada e non mi facevo più trovare; spesso cadevo, in particolare quando non venivo guardata. 
La prima frase intera che ho pronunciato è stata: “Non voglio mai più che tu venga a casa mia!”. La dissi a mio zio che aveva “rubato” la palla a mia cugina. Una negazione, un avverbio di tempo dai tratti estremisti, un verbo ben coniugato, un’azione di protesta e difesa di qualcuno. Una sola frase, ma di me si poteva già capire tutto. 
La mia infanzia l’ho trascorsa a disegnare. Ricordo poco altro: i colori, la bicicletta, l’hula-hoop, i libri, gli insetti, la campana del vetro in piazza. Il primo disegno che ricordo è un cielo stellato. Un altro è un uovo dentro la pancia di mamma. Poi mi ricordo la Panda bianca, le gite della domenica, le canzoni di Bob Dylan, Tracy Chapman, DeAndrè e Battisti.
Ricordo il primo incubo, che mi ha perseguitata per anni: una vecchia cattiva con il braccialetto di mia mamma. E poi ricordo il secondo incubo: papà non risponde al telefono perché è morto.
Mi ricordo che la notizia che sarei diventata sorella maggiore mi fu data mentre mangiavo l’insalata di riso a bordo piscina in un pomeriggio d’estate. Aveva un gusto strano quell’insalata. E anche quella notizia.
Il primo trauma è stato il trasloco dal paese alla città. Avevo visto 40 bambini in tutta la mia vita e poi in un giorno solo ne ho visti 30 tutti insieme. E non ne conoscevo neanche uno. E poi le suore. Mamma e papà, per non avermi tra i piedi durante il trasloco, mi avevano mandata dalle suore. Non potevo stare con la mia famiglia, dovevo stare nella famiglia del Signore. Sì, ma non era la mia!
Delle medie ricordo la noia, il primo colore cambiato ai capelli, il primo bacio, le cose fatte di nascosto. Le prime angoscianti, terrificanti, inquietanti mestruazioni, arrivate mentre facevo i compiti di geografia. E ricordo quaderni interi riempiti di disegni. Disegnavo in particolare donne: quello in cui avrei voluto trasformarmi. Erano bellissime, procaci, avevano gambe lunghissime, seni sodi e capelli fluenti. A me non è andata proprio così.
Da lì in poi ho potuto fare affidamento solo più sul mio cervello e il mio cuore. Il fisico non ha più risposto. Mangiavo pochissimo e ingrassavo a dismisura. Sono iniziate le diete, le dita in gola, le abbuffate notturne,  le notti in ospedale, gli sguardi arrabbiati con mamma. Forse è qui che ho ricominciato a nascondermi, a non essere più sicura di quello che dicevo, a pensare che avrei voluto essere ancora come quella bambina che per prima cosa aveva fatto vedere a tutti la sua faccia e in seguito aveva sputato una sentenza.
E’ arrivato il momento del liceo e ho sbagliato strada. Del resto io ho imparato a disegnare come prima cosa, non a parlare. Perché allora studiare quattro lingue e non imparare invece i nomi di tutti quelli che avevano disegnato prima di me? Io sentivo quello che la voce dentro mi diceva. Erano quelli fuori di me che non riuscivano a sentirla.
Ogni anno un crollo emotivo. L’arte mi perseguitava, io ero in perenne dubbio se seguirla o ascoltare i genitori.
Poi sono arrivate le cose brutte e dell’arte non me ne è più importato nulla. In inverno è arrivata una notizia assurda, spaventosa, inaspettata e tremenda. Insieme a lei sono arrivati i segreti, le urla, la rabbia, la solitudine, la testa a penzoloni dal balcone. E poi, lentamente, era di nuovo un giorno di primavera. Il primo. Ma non si poteva gioire di quei fiori che stavano nascendo, né di quel sole che iniziava a scaldare i nostri cappotti neri mentre guardavamo una bara attraverso grandi occhiali scuri. 
A questo punto c’è di nuovo un tratto nero, in quel disegno lungo ventisei pagine che è la mia vita. E’ nero, come la stanza con le persiane chiuse in cui ho vissuto per un mese. E’ nero, come quella palla malata che stava nella mia pancia e di cui non riuscivo a dimenticarmi. E’ nero, come il sentimento che sto provando mentre schiaccio i tasti del pc. E’ nero, come le mie pupille ingigantite dal pianto ora e allora. E’ nero come il buco in cui infilavo le persone che non volevo intorno e in cui ero scivolata mio malgrado. E’ nero come il vuoto. E’ nero come la poltrona nello studio della dottoressa vista ogni settimana per tre anni. 
Non riesco a ricordare quando ho ricominciato ad usare i colori, quando sul foglio ormai interamente scarabocchiato di nero sono comparse delle macchioline rosse, verdi, gialle. So che erano rosse, verdi, gialle, ma non so quando sono arrivate. So che erano piccole e sono arrivate un po’ alla volta. Tratti neri e tratti colorati mischiati nel foglio successivo.
E’ stato allora che sono diventata grande. Da lì in poi nella mia testa ci sono cose adulte: c’è la macchina, c’è la musica impegnata, ci sono letture di un certo livello, c’è lo studio nove ore al giorno, ci sono tre case, ci sono io da sola, ci sono io in compagnia, ci sono mamma e papà che diventano altro da me, c’è la laurea, ci sono scelte da grande, ci sono tante visite mediche inconcludenti, c’è il lavoro, c’è l’amicizia che sei certa che sia vera e poi non è, ci sono tantissimi amori che appena finiscono dici “non sono mai stata innamorata”.
E adesso cosa c’è? Adesso c’è che ieri riflettevo sul fatto che la “voglia” di disegnare non esce più da un bel po’ di tempo. Si è forse trasformata in voglia di scrivere? O in voglia di lavorare? Potrebbe anche essersi trasformata in voglia di cucinare e fare delle cose belle per soddisfare gli occhi e la pancia delle persone. In fondo l’arte, così come la cucina, riempie gli occhi e la pancia. Emozioni e cibo sono la stessa cosa. E ho evidentemente un rapporto estremamente complesso con entrambi. C’è voglia di cose belle, c’è voglia di cose vere. C’è voglia di stare bene.

Hipsteria

Eravamo 4 amici al bar. Bevevamo birra biologica di produttori locali e intanto fumavamo sigarette di tabacco senza additivi appena rollate a mano. Avevamo tutti e quattro la T-shirt dei Joy Division. Non una T-shirt dei Joy Division a caso, quella di Unknown Pleasures, ovviamente. Quella degli Smiths o di Morrisey da solo ce l’avevamo a casa nel terzo cassetto. Sopra la maglietta, un cardigan uguale uguale a quello che ci aveva fatto nonna da piccoli, ma comprato l’altro ieri in un negozio vintage. Oppure una camicia a quadretti. Tutti e quattro portavamo i baffi, chi arricciati in punta come Dalì, chi disordinati come se fossero cresciuti per caso (certamente tutti li portavamo radi; avevamo l’età in cui i uomini e donne hanno la stessa quantità di baffi). Indossavamo tutti e quattro pantaloni troppo stretti ed espadrillas senza marchio di fabbrica.Tutti quanti portavamo gli occhiali. Grandi, grandissimi, facevamo la gara a chi aveva l’occhiale più grande, come qualche anno prima, alle medie,  facevamo con il pisello. Portava gli occhiali anche chi ci vedeva benissimo. Piuttosto ci si metteva le lenti neutre, o li si portava finti. Molti avevano il cappello. Chi di paglia, chi un basco, qualcuno il borsalino per darsi un tono. Le ragazze avevano lacci che stringevano le tempie o chignon che sembravano stare lì sulla testa da almeno un paio di notti. Si andava spettinati. Andare dal barbiere sotto casa o da Jean Louis David in centro era troppo mainstream. Le ragazze avevano pantaloni a fiori senza forma, borse troppo grandi o troppo piccole per qualsiasi tipo di utilizzo. Qualsiasi capo d’abbigliamento mettessero era o troppo largo o troppo stretto. A parte qualche piccolo tratto distintivo, c’erano poche differenze tra uomini e donne. Non volevamo appartenere a niente. Nessuna politica, nessuna religione, nessun genere predefinito, l’orientamento sessuale incerto o variabile, come il tempo a giugno. Solo nell’arte volevamo distinguerci. La musica che ascoltavamo noi non doveva per nessun motivo essere passata in radio, altrimenti diventava alla portata di tutti. Di qualsiasi gruppo musicale si parlasse, se conosciuto ai più, dovevamo dire “è troppo sottovalutato” o “è decisamente sopravvalutato”. Qualsiasi gruppo ci nominassero, dovevamo dire “io lo seguo dagli esordi”, altrimenti non valeva. Non importava davvero che avesse un senso quel che stavamo dicendo, bastava sfoggiare una cultura musicale inesistente e far colpo sull’interlocutore. La letteratura che piaceva a noi doveva essere disprezzata dalla maggior parte dei lettori, altrimenti non avremmo saputo nulla di nuovo. I libri dovevano contenere frasi incomprensibili formate buttando parole e concetti a caso, e noi dovevamo dire che in quella frase lì ci vedevamo l’essenza della vita. Le foto che facevamo noi, sempre con un filtro diverso, dovevano comunicare angoscia e disorientamento a chi le vedeva. Le foto più felici e colorate potevano al limite comunicare malinconia. Per quanto riguarda il cinema, solo mattoni polacchi o documentari iraniani erano degni della nostra attenzione. Volevamo essere diversi, invece eravamo tutti uguali. Ci impegnavamo al massimo per sembrare hipster, ma il vero hipster non deve sapere di esserlo, quindi facevamo finta che non ce ne fregasse nulla. Avevamo le facce disilluse e l’aria vagamente bohémien, anche se eravamo quasi tutti figli di papà. Qualche anno prima giravamo su scooter modificati, ma poi avevamo addirittura rifiutato l’automobile pur di avere una bicicletta sgangherata con cui andare in giro. Gli oggetti “di lusso” che ci potevamo, anzi, dovevamo, permettere, erano lo smartphone e le vacanze a Londra o a Berlino. Beh, anche i nostri vestiti costavano un sacco di soldi, ma dovevamo far finta che ce li avessero tirati dietro al mercato del sabato. Eravamo giovani, eravamo stupidi, o forse dei geni: avevamo mischiato i pezzi peggiori della moda dei vent’anni precedenti e ne avevamo fatto uno stile, una cultura. Se qualcuno solo un paio d’anni prima si fosse vestito come noi e avesse avuto le nostre passioni, lo avremmo sfottuto in eterno. Era il duemiladodici e avevamo diciotto anni.

Alla ricerca del tempo perduto

Stamattina mentre mi lavavo i denti ho avuto un’epifania che manco Proust quando ha addentato la sua fuckin’petite madeleine lisergica. Ricordi d’infanzia, angosce attuali e progetti futuri si sono mischiati in un mega-trip che sostanzialmente gira intorno alla musica e al rapporto con mio padre.

Avevo scritto un lunghissimo e ammorbante post per voi. Poi ho trovato un bando di un concorso letterario e ho pensato “ci provo”. Che magari il frutto delle mie seghe mentali, anzichè perdersi nell’etere come al solito, stavolta diventa il seme generatore di una grande carriera di scrittrice. Il racconto però dev’essere inedito, quindi non posso pubblicarvelo che poi magari mi squalificano (sempre che qualcuno legga davvero i racconti che arrivano). Il regolamento diceva anche “1800 battute”. Ma scherziamo? E’ troppo poco per chi, come me, soffre di diarrea grafica. Ho dovuto tagliuzzarlo tutto. Non so se alla fine si capisse ancora qualcosa, ma l’ho spedito lo stesso.

Ho pensato che in caso di perdita a me non cambierebbe nulla. E anzi, sarebbe più che giusto. Lasciamo fare lo scrittore a chi ha studiato o sta studiando per farlo. Del resto anch’io quando sento che “qualcuno” mi sta rubando il mestiere, mi incazzo come una iena. In caso di vincita anche non cambierebbe nulla, con l’unica differenza che mi vergognerei come una ladra a vedere qualcosa di così personale pubblicato.

Che poi anche qui scrivo cose personali. E voi le leggete. E io scrivo apposta perchè voi le leggiate. Quando dipingo metto sulla tela tutto quello che mi passa per la testa e poi i miei quadri li metto su internet. Ci penso su. Qualunque forma di arte uno cerchi di fare (pittura, scrittura, cinema, fotografia, ballo…) è come se si masturbasse davanti a tutti. Metà del mondo è esibizionista, l’altra metà guardona.

E poi mi dico anche: ma se in fondo ci piace, come mai ci attacchiamo ancora così tanto alla morale? Sull’ultimo numero di Rolling Stone, Filippo Timi ha scritto un bellissimo articolo sul peso della morale nella nostra vita.

E poi penso: se penso ancora un po’ faccio la fine dei doberman, che hanno il cervello troppo grosso per la loro scatola cranica e diventano pazzi.